Sulla mostra Underworld



Bagliori nel buio

Underworld. Un mondo sotto. Un mondo sommerso, a cui si accede inspirando a fondo, per procedere in apnea. Tele bianche per uno specchio d’acqua luminoso, si percepisce il guizzo rapido di piccoli pesci rossi e azzurri, vivide figure su cui si riflettono i raggi del sole. Spostiamo lo sguardo e i movimenti sono ad un tratto lentissimi, il tempo sembra sospeso e lo spazio diventa quello del fondale buio. Le creature si accostano circospette all’occhio che indaga, alcune possiamo riconoscerle, altre sono del tutto nuove. Se l’acqua cristallina non genera ambiguità, la tela scura è un armonioso insieme di equilibrio ed inquietudine.
Sembra che questi strani pesci siano frutto di un momento epifanico, di una capacità nuova di addomesticare l’ignoto. Allora spiccano gli azzurri, celesti, gialli, ocra, rosa, sapientemente accostati per dare forma al profondo.
È interessante osservare come l’artista interpreti con le sue inconfondibili pennellate un tema tanto vicino alla storia della specie umana come quello dell’acqua e come lo utilizzi per mettere il pubblico di fronte a quel dualismo che da secoli percorre e anima entrambe le culture occidentale ed orientale.
Da sempre l’elemento acquatico è percepito come entità generatrice di vita, fonte di sopravvivenza e, per dirla con Jung, archetipo di un inconscio collettivo che accompagna l’uomo fin dalla nascita. È proprio con gli studi del profondo di primo Novecento, però, che si affaccia l’idea di specchio d’acqua come via d’accesso all’abisso, all’interiorità sopita, riprendendo le narrazioni del mito classico.
Allora la tela bianca restituisce quello che si vede dalla superficie. Si distinguono le increspature dell’acqua segnate dal vento, dal passaggio dei pesci che guizzano in banchi con repentini cambi di direzione. La tela bianca riporta quel lato della personalità che è possibile scrutare dall’esterno, quello aperto all’Altro, i moti dell’umore di cui siamo consapevoli. Nella tela bianca è possibile rifugiarsi per contemplare il proprio equilibrio, per tracciare i confini più nitidi dei pensieri.
È lo sfondo nero a sconvolgere l’osservatore, che si trova a fare i conti con suggestioni nuove. Il fondale marino è quel luogo che non viene raggiunto dalla luce del sole, il posto in cui non esistono giorno e notte, perché si è costretti ad adottare nuovi strumenti di interpretazione. La vista non basta più, si procede attraverso gli istinti, l’emotività. L’inatteso e l’eccezione sono le uniche costanti.
Vespasiani in primo luogo ci ricorda che il mondo sommerso, quello che molti riusciranno ad associare all’inconscio freudiano tanto caro all’esperienza psicanalitica, non può essere messo da parte, che non esiste superficie senza un substrato più denso ed inesplorato.
Le tele nere parlano delle nostre incertezze, dei moti lenti e striscianti delle paure che riaffiorano. Le macchie di colore assumono sulla tela forme diverse in base a chi le guarda, finché avviene una sorta di folgorazione: i pesci dei fondali diventano luminosi, quasi brillano di luce propria sul nero circostante. E succede qualcosa.
Con lo sguardo torniamo alle tele bianche e facciamo fatica a stabilire quale tipologia tra le due sia quella più splendente. Non si riesce più a fare a meno della tela nera, l’occhio per assuefazione vi torna e non può più abbandonare quelle composizioni magnetiche.
È chiara allora la peculiarità di Underworld. Risiede nell’imprescindibilità delle due dimensioni di luce e ombra, conscio ed inconscio, entità inscindibili che determinano l’unicità dell’individuo.
Mettere lo spettatore di fronte al proprio abisso è un invito a scoprire le intime fragilità, ad addomesticarle, e renderle, a poco a poco, bagliori nel buio.
Vespasiani con Underworld porta in superficie un mondo sommerso, ma, soprattutto, ci accompagna ancora una volta in un viaggio inatteso, ritrovando, con i suoi tratti intensi, i colori di un’umanità perduta.

Anna Carla Piergallini